Uno straniero parigino a casa sua

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bon alors bordel tu donnes des news ou quoi?

ciao ma caille, j’suis là

eccoti, finalmente… mi hai fatto preoccupare… ma tanto. è quasi una settimana che ti cerco. parti e non mi dici nulla, cambi paese e non mi dici nulla, cambi numero di telefono e non mi dici nulla, ti scrivo su whatsapp e non rispondi, vedo che non ti connetti neanche più… cosa devo pensare?! ma che storia è?! ieri pomeriggio ho visto geremia in centro e mi ha dato il tuo nuovo numero. come sempre prendi e parti, quasi all’improvviso. potevi aggiornarmi però

sì, scusa… hai ragione. mais tu sais bien que je n’ai rien besoin de te dire… on vit en symbiose. toi et moi

sì, vabbé. bref, ho visto quello che è successo venerdì scorso. ripeto, sono giorni e giorni che ti cerco; sono giorni e giorni che piango. che ti penso. che penso ai quei caduti. che penso alle immagini viste in diretta appena tornato a casa dopo una serata al pub. io però sono tornato a casa. mais dis-moi, pourquoi tous ces mois de silence?

je sais. je me suis un peu éclipsé, j’avais plus envie d’écrire, juste quelques pensées mais rien de vraiment structuré. j’avais besoin de prendre un peu de recul par rapport à la dernière fois… tu t’en rappelles..? on parlait, comme d’hab, de nos conneries intellectuelles: c’était en janvier, le 4 précisément, je vivais à milan et tu étais venu me voir. le sujet de notre conversation tournait autour du chiffre 7… et puis voilà, le 7 janvier, 3 jours plus tard, il y a eu l’attentat contre charlie hebdo. voilà, j’ai voulu me taire et j’ai pleuré, pendant longtemps. et puis tu vois, une semaine vient de s’écouler après toutes ces attaques contre paname. tout juste 7 jours. bizarre tout ça

ah giusto… adesso mi ricordo bene, si parlava del numero 7 anche se in realtà sono passati parecchi mesi… e comunque non è da te sparire così. e non è da te non dare notizie quando sai che magari la gente si può preoccupare

già… scusa, di nuovo. comunque, alla fine della nostra assurda dissertazione su quel numero, a gennaio, ti avevo salutato con un termine che – ahimè – sarebbe diventato realtà in un lasso di tempo molto breve: apocalisse. ecco, quello che ho visto in televisione la settimana scorsa e nei giorni successivi per le strade colpite penso vada al di là di quel termine. venerdì scorso dovevo uscire anche io nell’undicesimo arrondissement, mi aveva chiamato una coppia di amici per una birretta e probabile cena proprio in quella zona, sai che ai parigini piace uscire e stare en terrasse, soprattutto quando il tempo è dolce e clemente, una chimera per questo periodo dell’anno, cioè, siamo a metà novembre!

e perché non li hai raggiunti…?

perché ho preferito tornarmene nella tebaide di montmartre, volevo vedere la partita e mangiare un piatto di pasta – ti ricordo che è il mio piatto preferito – e poi sai che a me piace il calcio e sai che la mamma è medium, qualcosa mi avrà pure trasmesso no? d’altronde papà mi ha trasmesso la passione per il pallone…

quindi mi stai dicendo che il calcio ti ha forse salvato… e comunque ho saputo – giorni dopo – che volevano colpire anche il diciottesimo, montmartre per l’appunto…

esatto. forse ho una buona stella lassù che mi protegge. quel venerdì, dopo pranzo, sono andato a fare una passeggiata nel sesto – ti ricordo che ci lavoravo dieci anni fa – per me questo è un luogo particolarmente sentimentale, poi sono andato a scattare alcune foto sul retro della cattedrale di notre-dame – ti ricordo che è uno dei miei posti preferiti – e lì mi squilla il telefono, si tratta di questa coppia di amici che vogliono sapere cosa faccio, se li raggiungo o meno, sono quasi le sette, rispondo dicendo che alla fine me ne torno a casa e che ci si vede domani per un pranzo, prendo la metro per tornare quassù, su questa collinetta, ma la metro va a singhiozzo, non passa ogni due/tre minuti come di solito ma ogni sei/sette, cosa molto strana qui, ogni tanto si ferma persino in mezzo alle gallerie, sorrido e penso all’estate appena trascorsa sulla metro b di roma senza aria condizionata e con quaranta gradi addosso per cui mi dico che non può succedermi nulla, e poi tanto ho le mie super cuffie beats che mi coprono le orecchie e che mi proteggono dai rumori esterni, leggo un libro preso in libreria la settimana scorsa e ogni tanto batto leggermente il piede quando l’iphone trasmette un pezzo che mi piace, poi arrivo a casa, sento il primo e subito dopo il secondo botto durante il primo tempo, tutti pensano che si tratti di petardi, grossi petardi – ti ricordo che lì per lì l’ho pensato anche io – poi tempo di mangiare il mio piatto di pasta e mi chiama la coppia di amici di cui sopra per dirmi che sono appena tornati a casa, hanno la voce rotta, hanno poco fiato, erano a due passi da casa loro per questa benedetta birretta – e alla fine anche cena – boulevard voltaire, poco distante da lì c’è uno dei bistrot dove uno è entrato, ha ordinato un caffè, si è seduto al banco e si è fatto saltare in aria, mi urlano che ci sono delle persone per terra, le hanno viste da lontano, e la gente corre da tutte le parti, gridano, si spingono, inciampano nel trovare un riparo, sirene ovunque, poi sentono di nuovo spari in lontananza, chiudo e il telefono squilla di nuovo, poi di nuovo, poi chiamo io, chiamo la mamma in bretagna per dirle: je t’aime, tout se passe bien maman, poi chiamo il fratellino a roma per digli di non preoccuparsi, sono a casa vivo e vegeto – ti ricordo che potevo adoperare altri termini ma sono le prime parole che mi sono venute in mente – poi il telefono squilla di nuovo, una due tre quattro cinque dieci volte boh non mi ricordo ma mi ricordo che gli amici mi chiedono tutti: t’es où? qu’est-ce que tu fais? t’es chez toi ou quoi? ok, alors bouge pas, surtout reste chez toi, apro il mac, mi connetto a repubblicapuntoit e cambio canale per vedere le prime immagini in diretta, comincio a capire, piano piano, diversi kamikaze fuori dallo stadio, attacchi nel decimo e nell’undicesimo, sparatorie, diversi commando in azione, presa di ostaggi al bataclan, vedo scorrere messaggi su facebook e twitter. tragedia

…e poi?

e poi ho aspettato, ho aspettato alcuni giorni prima di camminare nuovamente per le vie di questa mia città, ho aspettato che i sogni e gli incubi si facessero meno violenti, perché lo erano entrambi, ho aspettato che queste seguenti parole mi risuonassero chiare nella testa e che le sentissi sotto la pelle, in maniera lucida:

MÊME PAS PEUR

7

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senti… toglimi una curiosità… ma anche quest’anno hai perso la nozione del tempo durante la settimana che separa il Natale dal Capodanno? sì… direi proprio di sì… bene, si vede che sei riuscito ad abbandonarti

ci stiamo avvicinando al 7… il tempo passa eh?! allora sei pronto…? pronto a cosa?! cioè…? e poi scusa, mi parli già del sette?! girati, per strada si respira ancora un’aria strana, guanti che si intrecciano e occhi che si sfiorano, senza far rumore, c’è un silenzio prolungato, sembra voglia recuperare una prolungata assenza… attesa durata settimane… sì sì ma ascoltami… prima del sette c’è il sei, che è un giorno di festa, quindi c’è ancora tempo… poi in effetti il sette si torna sempre sui banchi di scuola, dopo il sei. befana. dodici giorni dopo il Natale… Epifania… tutte le feste le porta via… ma secondo te la troveremo la calza piena di cioccolatini?! mah… tanto il carbone non va più di moda e poi stiamo elargendo sorrisi a destra e manca, un pò ovunque… una vera paralisi, non solo dovuta al freddo. per cui va tutto bene. siamo stati bravi noi… mica come voi

insomma ci stiamo avvicinando al 7… e quindi?! il sette arriva dopo il sei. so che tieni ad entrambi i numeri. e poi c’è il 76… sale e pepe, era ora eh?! parla per te! e del 75 allora, cosa mi dici?! ah… Lutèce! eravamo lì nel momento in cui si perde la nozione del tempo, ricordi…? mettiti la sciarpa, senti che freddo… copriti… brrr… marea bassa… si intravedono le prime conchiglie… la sabbia è ancora bagnata dall’acqua che si ritira, soffice, spinta dal vento è lì che galleggia sui granelli, si dirige verso l’orizzonte dove l’occhio si perde, dove cerca di vedere oltre… nooooooo quello era prima, poi sono arrivate le stelle

le sette stelle di hokuto, le sette meraviglie del mondo, i sette nani, i sette giorni della settimana, windows sette, le sette note musicali… aspetta, fermatiiiii mica gira tutto intorno al sette!! mica abbiamo solo sette dita, non si nasce mica in sette mesi, mica abbiamo solo sette peli sotto le ascelle… oddio, controlla bene le tue quando le gratti… se hai veramente sette virtù… perché tu gratti sempre e solo il tuo gatto… ecco, i gatti hanno sette vite… e poi perché? perché cadono sempre in piedi?! il tuo gatto in quale vita si trova? glielo hai mai chiesto? o forse non lo disturbi perché si trova al settimo anno di matrimonio, in crisi profonda, nozze di lana, o è in crisi perché non lo gratti più come una volta…? l’amore dura tre anni non sette ho letto e poi a letto è lo stesso quindi forse è vero… o forse no… dipende dal mese settembrino o dal set cinematografico? settimo giorno, gol nel sette, in rovesciata… in rovesciata? no dai… ma perché si fa gol nel sette?! guarda, basta che osservi il suo angolo… le sette del mattino, le sette malefiche, seven, seven seconds, i sette moschettieri ah merde! quelli erano solo tre… sette anni di studio “matto e disperatissimo”, sette giorni su sette, i sette sacramenti, i sette samurai, le sette vocali, i sette colori dell’arcobaleno… settebello… ah, occhio! occhio se cammini sopra l’arcobaleno con uno specchio… perché se cade… sono sette anni di sfortuna! i sette peccati capitali, capitali che ogni tanto danno la luce il 7, a luglio, servo tullio, uno dei sette re di roma, i sette colli di roma, i sette numeri di roma, septem, i sette anni vissuti a roma, sette anni in tibet, i magnifici sette, i sette pianeti, i sette cavalieri della tavola rotonda… ah merde! quelli erano un pò di più… le sette isole delle Canarie, dobbiamo andare a trovare un amico, chakra, cristiano ronaldo, ettagono… il sette e il suo rapporto con gli altri numeri tra l’uno e il dieci, non moltiplicabile e non divisibile, all’interno del gruppo. mah

…i sette arcangeli, i sette angeli, il settimo sigillo… le sette trombe… apocalisse

…apocalisse?!
senti, sono quasi le sette
vado a farmi la doccia

Specchio

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“Specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?”

Non c’è bisogno dei fratelli Grimm per possedere uno specchio magico e non c’è mai stato bisogno di una regina vanitosa alla continua ricerca della propria bellezza. Grimilde, Narciso, specchiarsi, guardarsi, tutti i riflessi sono magici, tutti gli specchi sono magici.

Chissà perché non ci accorgiamo più degli specchi.

Ci sono persone che amano gli specchi e persone che li odiano. In realtà, non so se odino lo specchio in sè o il riflesso della propria immagine. So che li evitano, sempre. Mai sentito parlare di spettrofobia? Il riflesso è sempre difficile da gestire. Gestire il riflesso della propria immagine può rasentare l’arte.

Anche i vampiri evitano gli specchi, dicono che non si vedano riflessi.. dicono sia una questione di anima.

Cammino con un amico lungo la riva di un fiume; osserviamo, sorridendo, entrambe le nostre immagini riflesse, torbide, sfuggenti. Anime. Cercando di non cadere in acqua – come insegna il buon Narciso – cominciamo a parlare di specchi. “Tu sei un artista, io un pensatore”… non so chi dei due finga di essere Boccadoro. Lui inizia a parlare in maniera frenetica; sembra stia parlando al proprio specchio.

Pensaci un attimo, rifletti, lo specchio.. per me lo specchio è come un testimone a cui affido le mie memorie.. noi due in fondo siamo sempre stati estremamente puntuali ad ogni nostro incontro, ad ogni appuntamento, dal primo, quello mattutino, ad altri durante la giornata, passando da quelli più intimi a quelli fugaci, per strada, per aggiustare qualche capello, dettagli insomma..

Memorie

Noi due in fondo ci somigliamo parecchio, è vero, anche se della tua vita non sono certo di sapere tutto come credo, e così forse è vero anche il contrario: è probabile si tratti solo di una lunga, intermittente ma allo stesso tempo continua illusione, come un’immagine che viene e va, che sa quando venire, che sa quando andare, senza dire mai una parola di troppo, forse, senza dire mai una parola…di là!

Quando venire, quando andare

Senti, ormai ti conosco da quanto? Non lo so più neanche io… t’ho visto sotto molti aspetti, e conosciuto via via che gli anni passavano, sempre presente quando avevo bisogno di te, sempre in grado di porre di fronte a me un’immagine chiara, diretta, non sempre in linea col mio pensiero, a come la vedevo io, anzi sei praticamente un persistente punto di vista differente.

Bisogno di te

Conosco da anni una persona che ti piacerebbe, un vero amico; lui si comporta molto spesso come fai tu con me e pensa, avete la stessa lettera iniziale e la stessa lettera finale! Vi somigliate insomma o forse siete uno la copia dell’altro, solo visti da un’altra prospettiva, da una prospettiva centrale, uno in una realtà e uno in un’altra.. come fai tu con noi due ogni volta che mi osservo crescere, guardandomi fisso negli occhi e lasciando che le risposte alle domande in sospeso arrivino in qualche modo, da qualche parte.

“Tu sei un artista, io un pensatore.”

Il ponte

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All’inizio dell’anno c’è chi non vede l’ora di scorrere il calendario per segnare con un cerchio il giorno del compleanno di amici e parenti. Per molti si tratta di un rito. In realtà, la prima cosa che facciamo è cercare il giorno del nostro compleanno, è un classico. C’è chi invece all’inizio dell’anno il calendario lo scorre molto velocemente per capire la struttura dei ponti di primavera, per giocare d’anticipo su colleghi e caselle in excel da riempire (versione ufficiosa, quasi intimista) / per pianificare in tempo le tipiche gite fuori porta con amici e parenti (versione ufficiale). Polline permettendo.

Tempo fa, durante un ponte di primavera, mi trovavo in Bretagna, terra di avi e d’infanzia. Si parlava di coincidenze e di polline, seduti a tavola; in famiglia c’è chi è allergico al polline. Dopo pranzo, mio nonno andò a prendere un libricino dalle pagine ingiallite, custodito nella sua immensa biblioteca. Un volta aperto, si sentiva un odore acre di vissuto. Sprofondò nella poltrona e cominciò a leggere, con la pipa in mano.

Quelle che qualcuno chiama coincidenze fecero si che si incontrassero, accidentalmente, come sempre accade. Stavano camminando su un ponte, una mattina di fine aprile. Era un fine settimana, lungo. Era un ponte di primavera. Nevicava polline. Quella mattina raggiunsero a piccoli passi il centro di quel ponte, il suo punto più alto per via della curva, simultaneamente, provenienti entrambi da entrambe le sue estremità. Non c’era stato bisogno di alzarsi sulla punta dei piedi per riconoscersi. Si trovavano nel punto più alto dopo aver raggiunto entrambi il punto più basso, questo era stato il loro primo scambio.

Quelle che qualcuno chiama coincidenze fecero si che il ponte dovesse essere il simbolo della loro unione. Lo avevano deciso, insieme. Al primo incontro seguirono altri incontri, non più accidentali, come sempre accade. Decisero che avrebbero camminato sui ponti più belli delle città più belle del mondo, non solo di mattina, e che tutte le volte dovevano partire entrambi da entrambe le estremità, ogni volta per potersi incontrare e riconoscere nel punto più alto della curva. Camminare sui ponti era come fermare il tempo, a modo loro, era come fermare immagini non conosciute, mai viste. Era un rito.

Quelle che qualcuno chiama coincidenze fecero si che non si accorsero in tempo che il tempo passava, inesorabile. Il rito divenne abitudine, l’abitudine divenne noia. Continuarono ad incontrarsi sui ponti più belli delle città più belle del mondo promettendosi, vicendevolemente, amore incondizionato e rifiuto categorico di lucchetti intrecciati e parole mielose, indelebili, incollate sopra l’acqua dei fiumi. O dei mari. Poco importava. Loro erano diversi, come sempre accade.

Nevicava
Neve
Nessun polline
Nessuna impronta

Aspettavamo tutti un commento dal nonno
Una sua impronta
Parlò di coincidenze

La borsa

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Dai prova anche tu, forza! Ok, ci provo: precipitevolissimamente! Sbagliato! Cioè no, magari non è sbagliato a livello grammaticale, ma non è la parola che ti sto chiedendo di pronunciare. Precipitevolissevolmente! Quasi.. Precipitelovissimevolmente! Humm.. Dai concentrati e conta fino a dieci. Precipitevolissimevolmente!! Oh, bravo, ce l’hai fatta!! So che le prime volte non è facile da pronunciare, soprattutto per chi non è di madrelingua. Lo sappiamo. E soprattutto perché la parola è lunghissima, composta da undici sillabe, un endecasillabo, me lo hanno insegnato al liceo (in realtà me lo avevano insegnato anche alle medie ma ero troppo concentrato sul fatto di non essere di madrelingua italiana).

La borsa è l’oggetto che una donna deve sempre avere con sè. O per lo meno a portata di mano. O – meglio ancora – in mano. Dipende dalle sue dimensioni. Anzi, dipende dalle occasioni. Dipende dall’orario. Dipende se è mattina o sera. Dipende se vado al lavoro o fuori porta, dipende se vado al ristorante con Gianni che me la mena da più di un mese o se vado con le amiche in discoteca, così, per cambiare aria. E comunque.. Sempre averla in mano. O sottobraccio. O in spalla. Mai perderla di vista, la borsa. La donna e la borsa sono spesso un tutt’uno. Si completano. Si somigliano. Dipendono l’una dall’altra. L’altra dall’una. Una borsa per ogni occasione. Da abbinare rigorosamente con le scarpe e preferibilmente col vestito. O col foulard. Non si sa mai. Perché la classe non è acqua. E l’eleganza? Mah, a me piacciono le persone in cui scorgi l’eleganza dell’anima. Ah! E cosa mi dici allora del carattere di una donna e del carattere della sua borsa?!

“Chi troppo in alto sal cade sovente / precipitevolissimevolmente”. Ecco, precipitevolissimevolmente è una delle parole più lunghe della lingua italiana. Oltre ad essere un proverbio di una verità sconcertante. Ma non è la più lunga. Ah, eppure a me sembra tanto, tanto lunga.. Ma allora dimmi, qual è la parola più lunga? Supercalifragilistichespiralidoso?!?!

No, lascia stare Mary Poppins, anche se devo dire che la borsa della supertata ha il suo perché.. Confesso che mi hai fatto ridere. E comunque no, non è il portafoglio, non è la boccettina di profumo, non è l’agenda, non sono i fazzoletti, non è la spazzola, non sono gli elastici che non vuoi più mettere al polso perché ti rallentano la circolazione del braccio, non è la custodia nera con dentro gli occhiali da sole, non è il burro cacao, non sono le ballerine (!) o i cerotti per i piedi (!!) non è il mazzo di chiavi che puntualmente si perde nei meandri di quel casino (!!!) e no, non è neanche la bottiglietta d’acqua con il residuo fisso più basso, non è il pacchetto di crackers integrali o la barretta di cioccolato che ti fa tutta ciccia e brufoli, no, neanche lo smartphone anche se magari capita che me lo dimentico a casa e poi dimmi tu eh, come faccio a trascorrere un’intera giornata senza?!.. No, l’oggetto più importante rimane la borsa. L’oggetto in cui mettere tutti questi oggetti. E tanti altri. E lo smartphone, soprattutto, così non lo lascio a casa.

Sì va bene, ma prima si parlava della parola più lunga in italiano.. Okay, allora aspetta che vado a vedere su wikipedia perché non lo so. Ecco, trovata! La parola più lunga della lingua italiana è…un neologismo! Nato anni fa grazie ad alcuni studi sullo stress, la “malattia del secolo”. Quale secolo? Te lo spiego dopo. Psiconeuroendocrinoimmunologia! Vuoi provare?! Psico-neuro-endo-crino-immunologia!! Non facile eh?!

Nella borsa di una donna ci sono solo oggetti indispensabili: esci presto al mattino e la sera torni tardi dopo una giornataccia tra la decina di mail che devi sbrogliare immediatamente, appena arrivi in ufficio, poi si fa l’una e quindi dai andiamo a mangiare da Carmela e poi andiamo al bar a bere un caffé d’orzo in tazza grande perché il pancino va riscaldato, fuori fa veramente freddo…brrrr…ho le dita intirizzite…no no, uscite voi a fumare, io me ne sto qua al calduccio! Poi i meeting pomeridiani, sei cercata da tutti e a tutti vorresti dire che sei in riunione per tutto il pomeriggio e fai un occhiolino d’intesa alla segretaria, dai aiutami e non passarmi nessuno! Lei, la segretaria, la sua borsa l’ha appoggiata sulla scrivania per non perderla di vista (e perché non si deve mai appoggiare la borsa per terra, allontana i soldi, era solita ripeterle la nonna di Foggia). Oggetti indispensabili? Il portafoglio lo è senz’altro, rigorosamente abbinato al colore della borsa. Meglio se della stessa marca. E il mazzo di chiavi, anche se si perde nei meandri…anche quello è indispensabile. Guarda che rimani chiuso fuori casa! E i trucchi? No, non lo sono neanche quelli. Beh, ma al mattino bisogna pur eliminare le borse sotto gli occhi, no?! Sì, la soluzione?.. Occhiali da sole! Aiutano. Anche d’inverno. Sull’autobus. O nella metro. In macchina. Sempre.

“La borsa è ampia e spaziosa al sorgere del sole e si rimpicciolisce e si illumina di strass e diamanti al calar della sera”. Ho letto questa frase seduto su una poltrona qualche giorno fa mentre aspettavo il mio turno dal barbiere. Sì, la Borsa è il Vero Oggetto Indispensabile. La borsa, la borsetta, la borsina, la pochette.. Oh, cosa fai, bofonchi? Sì, non capisco il nesso tra la lunghezza delle parole italiane e la borsa delle donne. Quei due versi poi…chi troppo in alto sal..??.. Okay, allora adesso siediti. E ascoltami.

Hai mai provato a mettere le mani dentro la borsa di una donna? Io non l’ho mai fatto. Non ci riesco. Per me è il loro giardino segreto. Non lo facevo neanche da adolescente, tanto per fregare una sigaretta alla mamma bastava andare in cucina, le lasciava sul tavolo. Le uniche volte in cui mi è capitato è perché si era perso il mazzo di chiavi nei soliti meandri. A volte due mani per frugare non bastano.

Una sera ho saputo che quattro mani si stavano intrecciando nei soliti meandri della borsa di lei, sotto le luci opache delle scale, era tardi, dai aiutami non trovo ‘ste chiavi sono stanca uffa e poi due voci che a un certo punto cominciano a sovrapporsi, a farfugliare. Lui, le sue chiavi, le aveva lasciate a casa tanto, amore mio, chiudi te, vero?! Due sguardi che si incrociano e si piegano. All’improvviso. Quattro mani nella borsa. Ginocchia per terra. Si farfuglia. Ecco, da quel momento lì, da quel momento in poi, quello che lui scoprì nella borsa di lei, proprio lui che viveva da pochi mesi con lei e con il loro progetto, il loro Amore, la loro storia, la convivenza. L’Amore. Se lo dicevano. Se lo ripetevano. Sempre. Per Sempre (forse, un banale PS).

Ecco, da quel momento in poi, da quando gli era parso di aver raggiunto la vetta, le distanze percorse, tante, da quando aveva capito che poteva intrecciare le mani e gli sguardi senza che si piegassero, entrambi, così, all’improvviso. Ora, un improvviso intreccio di parole percorse durante il loro percorso. Sempre farfugliato. Sia l’intreccio, che il percorso.

E comunque lì dentro, dentro quella borsa, scopre quella cosa lì.

E. Improvvisamente. Cade.

Precipitevolissimevolmente

La settimana

La semaine

La settimana che separa il Natale dal Capodanno è la settimana in cui si perde completamente la nozione del tempo. Forse è l’unica settimana dell’anno in cui si dimenticano i giorni.

Ogni anno, il Natale è colto con finto stupore: “Ma è già Natale?!” – “Eggià, è già Natale”. La risposta ha lo stesso tono della domanda, cambia solo il finto stupore: si passa al concetto del tempo che passa e non s’arresta un’ora..

Il Natale invece si sente arrivare con largo anticipo. L’atmosfera si colora quando le foglie scolorite smettono di cadere. Le prime luminarie sussurrano all’orecchio che è tempo di comprare i regali, di essere buoni e sorridenti. Ti ricordano che tra un pò sarai seduto a tavola con un sacco di parenti che magari non vedi da una vita. O che magari vedi solo una volta all’anno. Devi essere brillante come i colori delle luminarie, come le luci dell’albero di Natale, attento e vigile. Vero nella facoltà che hai di esserlo o meno. L’immagine che darai di te in quell’occasione in cui si è buoni e sorridenti sarà quella che i parenti che vedi una volta all’anno immagazzineranno in un qualche posto della loro memoria a lungo termine.

E questo fino al prossimo Natale. Così fino all’anno prossimo.

Viceversa, quello che avrai sentito con l’udito e con il cuore sarà quello che ti porterai dietro (e dentro) per un anno intero. Perchè checché se ne dica, il Natale rappresenta sempre un’epifània. Spesso si hanno improvvise percezioni alle quali si riesce a dare un determinato significato. Capita di essere colti da un qualcosa di luminoso non proveniente dall’albero di Natale. Seduto a tavola e circondato dalla famiglia, dagli affetti.

E tu, mentre pensi alla tua personale epifània natalizia e joyciana, pensa anche a qualcosa di più concreto e a quanto poco tempo intercorra tra l’essere buoni e sorridenti -veri nella scelta di esserlo o meno- e la notte in cui tutto è lecito. “Semel in anno licet insanire” diceva (e faceva) chi la sapeva lunga. Ah, non preoccuparti se ancora non hai trovato la tua epifània natalizia: hai tempo fino all’epifania, quando sarà ora di mangiare la Galette des Rois e quando la Befana porterà le calze ai bambini.

Da piccolo mi hanno insegnato a “vedere” la settimana come una torta suddivisa in sette parti. Si tratta di una delle poche immagini che mi appare quotidianamente davanti agli occhi. A mezzogiorno c’è la domenica mentre alle diciotto si accavallano il mercoledì e il giovedì. Il lunedì e il martedì si trovano ad Est, il venerdì e il sabato ad Ovest. L’ultimo dell’anno arriva sempre ad una settimana esatta dal cenone di Natale, dalla sera del 24, per intenderci. Basta capire, quella sera, dove ci si trova sulla torta della settimana per muoversi al meglio fino a Capodanno. Aiuta. Ci si sente meno destabilizzati nel non capire che giorno è. “L’ozio, Catullo, è a te dannoso…”

Il Natale si avvicina in maniera soffice e costante, fino a raggiungere l’Acme: il ricordo di aspettare la mezzanotte per aprire i regali con mio fratello è indelebile e pieno di malinconia. Babbo vestito da Babbo Natale. La mamma con la “bûche” in mano.

La notte dell’ultimo dell’anno arriva sempre in maniera assordante così come assordante è spesso il risveglio del giorno dopo. Il Capodanno. La domanda -in questi giorni- è sempre la stessa: “Cosa fai a Capodanno?!” – la risposta si consolida nel tempo fino a raggiungere la perfezione in una formula simile: “Ancora non lo so, alla fine deciderò il 31 stesso”.

Una volta bramavo per vivere in maniera sempre diversa l’ultima notte dell’anno; non pensavo a dove mi trovavo sulla torta della settimana, volevo solo iniziare il nuovo anno in un luogo diverso, in un luogo vergine, come per vivere una sorta di catarsi. Il tutto rientrava nei buoni propositi che ognuno di noi si da per l’anno che sta arrivando, purificatore di quello che sta finendo. Da piccolo trattenevo il respiro a pochi secondi della mezzanotte mentre i grandi si apprestavano a riempire grandi bicchieri di bollicine. Poi, tra le urla e gli abbracci, ricominciavo a respirare. Era il mio modo di dare il benvenuto al nuovo anno.

Oggi, ho capito quanta più importanza ha lo star seduti a tavola, buoni e sorridenti, attenti e vigili. Veri. Preso -e spesso perso- nella descrizione della torta della settimana suddivisa in sette parti.

Sì, finalmente anche tu hai trovato la tua epifània e credimi se ti dico che non è molto dissimile dalla mia.

La mongolfiera

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Tutti i bambini conoscono e riconoscono una mongolfiera quando vola maestosa in cielo. Elegante, imponente, irriverente, la guardano, la puntano con l’indice e urlano: “guarda…guarda lassù…una mongolfiera!” La mongolfiera è l’unico mezzo volante non facente rumore che tutti i bambini conoscono.

Shhh…silenzio! Cosa c’è?

Le mongolfiere volano in silenzio. Un silenzio rotto solo dall’accendersi del propano. E’ un silenzio atipico. Non è come salire su un elicottero o volare su un deltaplano. Sulla mongolfiera il silenzio è condiviso. Vissuto. Con meraviglia. Perché si assapora il non rumore che a quella altezza è incantevole, ammaliante. Surreale. Un non canto cantato dalle sirene di Ulisse. Io lo so. Ci sono salito sopra. Da bambino.

Shhh… Cosa c’è? Non sono stato io…non ho fatto rumore! Tu hai sentito qualcosa?

Il silenzio silenzioso è il peggiore dei silenzi. Esistono vari tipi di silenzi e il silenzio silenzioso è il peggiore dei silenzi. E’ vuoto. Non parla a nessuno. Non porta a nulla. Si sta in silenzio silenziosamente silenziosi.

Shhh…non fare rumore…ora c’è bisogno di silenzio. Dicono che il silenzio al giorno d’oggi non esista più. La società e il tempo in cui viviamo sono troppo rumorosi. Siamo arrivati al metterci le cuffie in testa – animati dal rumore che scegliamo – per non sentire il rumore del mondo. Forse è davvero questo il punto di non ritorno.

Mettiamo le cuffie in testa per non sentire il rumore del mondo. In effetti c’è musica dappertutto, ad ogni angolo di strada, musica nei negozi, musica al bar, dal salumiere o dal fioraio. Musica o rumore di sottofondo. Nei treni, negli aerei, in macchina, seduti a casa mentre ci si vuole convincere che anche il silenzio è musica. E non viceversa.

Il silenzio sa prendere il volo come una mongolfiera che sale leggera e si fa trasportare dal vento. Il silenzio è musica, il silenzio è poesia, il silenzio è interiore. Già, ma quanto è difficile fare silenzio dentro se stessi! Anche in silenzio si può pensare al silenzio. Anche in silenzio si può scrivere qualcosa di silenzioso, basta che non faccia troppo rumore.

Silenzio.

Allora in silenzio ti dico che hai ragione. Ho rivisto la foto dell’altro giorno e sono d’accordo: “Sì, esiste sempre il successivo capitolo…” così come i bambini rimarranno sempre non silenziosamente sbalorditi alzando gli occhi verso una mongolfiera maestosa, giunta lassù in silenzio.

Ricorda però che più rumore faranno le dita battendo sui tasti della macchina da scrivere e meno silenzioso sarà il silenzio.

Farà rumore.

La statua

san_francesco

Quando guardi una persona dritto negli occhi cerchi sempre di capire che cosa nascondono quegli occhi. A volte non succede subito ma prima o poi succede. Più prima che poi. Gli occhi hanno sempre qualcosa da nascondere. Chi pensa di non dover nascondere nulla con gli occhi pensa di non dover nascondere nulla di se stesso. Ma non a se stesso. Nessuno di noi ha uno sguardo innocente. Tutti abbiamo qualcosa da nascondere.

Anche tu.

Una delle prime cose che mi ha colpito di Roma – qualche tempo fa – è stata la stravagante moltitudine di statue incontrate mentre vagavo – perso – per le sue vie. Non lo facevo a posta, a Roma ci si perde. Le sue vie, le sue piazze, i suoi angoli, i suoi giardini, le sue chiese, le sue ville, le sue fontane, i suoi tetti, i suoi palazzi, le sue cupole. Invasione di statue di piccole medie grandi dimensioni. Caput Mundi.

Gli occhi sono lo specchio dell’anima. Penso di aver sentito questa frase almeno un centinaio di volte, una frase diventata oggi banale ma che di banale ha ben poco. Gli occhi sono la parte più importante del corpo. La parte che riceve ed elabora le informazioni, i processi cognitivi.. E’ la parte più sensibile e allo stesso tempo quella meno protetta. Le ciglia degli occhi lavorano sempre, continuamente, non si stancano mai, sbattono migliaia di volte al giorno, solo per proteggere pulire idratare l’organo più importante del nostro corpo. Dopo il cuore. I pesci non chiudono mai gli occhi.. Neanche il povero protagonista di una delle scene più violente di Kubrick!

Le statue di Roma sono un un piccolo esercito non parlante che parla tantissimo. A tutte le ore del giorno e della notte. Parlano di epoche lontane, di persone incontrate, di occhi umani che hanno incrociato i loro occhi milioni e forse miliardi di volte. Dipende dall’epoca della statua. Dipende da quanto è profondo lo sguardo della statua. Dipende se riesci a scorgere lo sguardo della statua, dipende da dove è posizionata, dipende se ha voglia di guardarti o se preferisce guardare un’altra statua. O il cielo. Tutto dipende, va bene…

Ma è relativo il fatto che tutto sia relativo!

Gli occhi sono piccoli – si sa – e sono posizionati nella parte più alta del nostro corpo. La testa. Non potevamo avere gli occhi all’altezza della gola o – che ne so – delle cosce? No. Intanto non vedresti cosa mangi. La digestione inizia sempre dagli occhi. E poi i soldati costruiscono castelli in cima ai colli, in cima alle montagne, per vedere meglio. Il nemico. Per vederlo da lontano, per vederlo arrivare da più in alto possibile. E vederlo dal più in là possibile, essendo più in alto possibile. Chissà cosa pensano gli astronauti quando sono lassù in un posto senza gravità dove non puoi andare più in alto. Deve essere alienante. Si tende sempre ad andare più in alto, non solo più avanti. Chiaro…indietro non si torna.

A Roma le statue sono anche parlanti. Parlano?! No. Parlano con gli occhi.. Come i cani? Si, ma i cani abbaiano e forse parlano per davvero, le statue no. Parlano rispondendo ai messaggi scritti e appesi di notte ai loro piedi. Dipende poi da che cosa vuoi sentire. O leggere se ti rispondono. E’ già successo.

Gli occhi sono probabilmente anche la massima espressione del linguaggio del corpo. Quella più incisiva. Paradossalmente la più veritiera. Ecco perché cerchi la menzogna negli occhi delle persone! No, cerco le cose nascoste..

Statue parlanti.. Si, sono sei e si trovano nei posti più disparati della città. La più famosa è Pasquino ma la più affascinante è Madama Lucrezia, forse perché è l’unica statua femminile…si trova in un angolo nei pressi del balcone più famoso d’Italia. Quello di Romeo e Giulietta? Sì, più o meno.. Madama…parigina? No, napoletana, ha vissuto nei pressi di quel balcone tanti anni fa e aveva la sua statua davanti a casa. Se la osservi bene vedrai che i romani – nel tempo – hanno accarezzato il suo volto, fino a sfigurarlo. Nei pressi del balcone di Giulietta i veronesi – nel tempo – hanno preferito accarezzare il suo seno. E poi si parla di campanilismi..

Ma cosa c’entrano gli occhi con le statue? Nulla. A me piacciono le spalle delle statue. Non i loro occhi. Mi piace la vulnerabilità delle spalle delle statue, dove arriva il nemico, la parte meno esposta, meno vista e quindi più suggestiva e misteriosa. Opinabile!

Certo, non riesco a capire cosa nascondano gli occhi delle statue di Roma.

Sono state abituate a vedere troppe menzogne.

Roma antropofaga

colo.flickr

La fortuna degli apolidi metropolitani senza radici avendone ovunque consiste nel fatto che riescono solitamente a saltare da una città all’altra senza troppe difficoltà. L’eventuale nuova lingua, i nuovi posti alti o bassi, grandi o piccoli non rappresentano quasi mai un problema. Il vero problema sono gli autoctoni. I mangiatori di uomini. A prescindere dalla latitudine e dalla longitudine. I mangiatori di uomini vivono ovunque, in qualsiasi metropoli. A volte vivono anche nei villaggi. Il cannibalismo – in questo caso – è a misura d’uomo.

“La bellezza del luogo in cui vivi è inversamente proporzionale alla velocità in cui ti ci imbruttisci. Vivendoci.” Non è un detto popolare. E’ il risultato di una constatazione. Non mia. Dopo aver visto un film. Al cinema. Poco tempo fa.

Passata la fase degli orsacchiotti, dei cd anti autovelox e degli arbre(s) magique(s) attaccati allo specchietto della macchina – e anni dopo aver imparato a guidare veramente una macchina – ti trovi davanti ad un un bivio: deve essere un mezzo, il mezzo che mi porta dal punto A al punto B nel minore tempo possibile e con tutte le comodità del caso? Decisamente si. Ma non è solo una questione di tempo. E neanche di comodità. E a dire il vero neanche di arbre(s) magique(s). Quelli li attacco ancora. L’altra via del bivio è una strada piena di curve, non una strada rettilinea. Non l’autostrada. Che monotonia. E’ più veloce si certo. Ma si va sempre dritto. E poi ti addormenti al volante se non bevi molti caffé. Non ci sono le curve.

Sono tante le metropoli del mondo e tanto è il mondo. Troppo. I nostri occhi sono piccoli. Troppo piccoli per vedere quanto tanto è il mondo. Non basta una vita. Troppo poca. Ma se vai in autostrada non vedi e non vivi mai le curve: i paesaggi nascosti che si aprono davanti a te – dopo ogni curva – rimangono persi. Nascosti. Non visti. Perdi guadagnando tempo.

“E’ anche un film sullo stridore totale che esiste tra la bellezza di Roma e la bruttezza delle persone che la abitano. Non perché sono brutte di natura. Ma perché Roma le ha imbruttite.”

Potrebbe forse essere un inno al romanzo sul niente! Il titolo del romanzo del protagonista – l’Apparato Umano – è come si suol dire la chiave e il riflesso del messaggio. E’ un film sul niente e sulla bellezza di Roma che vuole riempire quel vuoto. Ma solo in superficie. La sostanza dimostra invece che la bellezza è prima di tutto fatta di uomini e dagli uomini. E’ umana. Anche perché è l’uomo che decide ciò che è bello, dato che gli piace. Ma se la bellezza è umana allora è anche decadente. Prima o poi svanisce. Rimangono gli angoli nascosti dietro ogni curva di Roma. A piedi. Senza macchina. Pedalando in bicicletta o navigando sul Tevere..

Il corpo che si riempe e si vuota. L’Apparato Umano. Pennac ultimamente è in fissa con l’apparato, con il corpo umano inteso come contenitore di tutta la nostra storia. Hillman era in fissa con le emozioni che hanno una memoria nello stomaco. Ah lo stomaco, il secondo cervello.. Ho visto poche farfalle in quel film.

Saltare da una città all’altra per un apolide metropolitano senza radici avendone ovunque è come prendere la macchina e decidere di intraprendere una strada piena di curve. Ancora una volta. Altro bivio. Poca monotonia. Ma non è solo una questione di tempo.

Perché le curve saranno sempre di una certa.. grande bellezza!

Il bicchiere di latte

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Se scrivo “ceci n’est pas une pipe” scommetto che anche tu – in questo preciso momento – stai pensando alla pipa di Magritte. No? Si, dai.. Ah si.. Ricordo questa pipa in primo piano e la frase sotto, mi ricordo uno sfondo chiaro, forse giallo scuro, forse marrone chiaro. Che differenza c’è? Mmm.. Esiste il marrone sabbia, il marrone seppia, il marrone rame, il marrone beige. Il beige è una tonalità di marrone? Si, esiste persino il marrone daino e il marrone castoro. Apperò!

La pipa di sicuro è color pipa, marrone, come il legno. Di solito i fornelli delle pipe sono fatti con la radica. Di che colore è la radica? E’ un legno rossiccio. Lo sfondo comunque è chiaro, questo è poco ma sicuro. E comunque si, ho presente quel dipinto.

Bene, quel quadro si chiama “la Trahison des images”, il tradimento delle immagini. Questo magari non lo sapevi. Non ti preoccupare. Non lo sapevo neanche io. E sai che cos’è l’autoreferenzialità? Si, l’ho studiata all’università.. Don Chisciotte, Sei personaggi in cerca d’autore.. Calvino e i suoi dieci incipit.. Bene, quello di Magritte è un lavoro autoreferenziale, surrealista. Dicono sia riuscito ad andare oltre, oltre la quarta parete. La quarta parete?..

Non so se mio nonno si sia mai chiesto se una una pipa è davvero una pipa. Non so se mio nonno si è mai chiesto se una pipa fosse veramente una pipa. So solo che la consecutio è sbagliata. In entrambi i casi. Beh, forse la prima frase sta in piedi, no?.. Dici?..

In ogni caso – io e mio nonno – non abbiamo mai avuto modo di parlare di Magritte. Ma abbiamo fatto tanto altro. Sicuramente conosceva la pipa del quadro. Sicuramente conosceva Magritte. Non personalmente. Ovviamente. La pipa. Lui fumava la “sua” pipa al mattino, solo dopo aver bevuto il “suo” bicchiere di latte. Chi conosce la lingua francese conosce l’importanza dei pronomi possessivi.

Che figura importante il nonno. Che figura statuaria – saggia – il nonno. Molti nonni fumano la pipa. Il mio l’ha fumata per più di 50 anni. Vedo ancora il suo dente scavato dal bocchino tenuto perennemente in bocca. Solo qualche tempo fa, quando me ne ha regalata una, ho capito quanta fatica si fa nel mantenere il peso di una pipa tra le labbra. Il suo dente era molto scavato. Seduto, nella sua poltrona, manteneva la base della pipa con la mano destra, colonne di fumo, gambe accavallate, reggeva sempre un libro di fantascienza nella mano sinistra. Il pollice fungeva da leggio. Rimaneva così per ore.. Fantascienza! No, colonne di fumo. E la nonna che brontola.

La pipa. Un oggetto sacro, di antichissime origini. Mio nonno, Papy, era solito fumare la sua pipa solo dopo aver bevuto il suo bicchiere di latte. Al mattino. Papy la pipe. Dopo il latte, la pipa. Mai il contrario. E dopo la pipa il giardino. Non fumava mai durante la visita quotidiana alle sue piante di rabarbaro. Che buona la confettura di rabarbaro! Già.. Quella la faceva la nonna, Mamy. Mamy però fa anche le crêpes più buone del mondo. Che buone le crêpes! Et les gallettes?..

Magritte era belga, come mio nonno. Ah si?! Ma dai.. I belgi sono un popolo strano. No, i belgi sono considerati forse un po’ strani, ma penso sia un luogo comune. E i fiamminghi? I fiamminghi.. Mmm.. Ma da dove nasce questo amore-odio tra belgi e francesi? E’ perché parlano la stessa lingua e sono confinanti. Sembra surreale, come la pipa di Magritte, ma è così. Beh, anche gli italiani e gli abitanti del Canton Ticino parlano la stessa lingua. Si, anche gli argentini e i boliviani. Mmm.. E quindi?..

Al mattino, tanti anni fa, bevevo il mio bicchiere di latte col nonno. In cucina, con la radio che trasmetteva pezzi francesi degli anni 60 e 70. A volte passavano persino qualcosa degli anni 80. Riconoscevo qualche canzone. Le ascoltava mio padre. Guai a non berlo il mio bicchiere. La nonna brontolava. Bois ton verre de lait, sinon cet après-midi on ne va pas au Verdelet. Da casa dei miei nonni si è sempre andati giù al mare, dove c’è il Verdelet. Il Verdelet era o è un luogo di culto dalle antichissime origini. Come la pipa. E’ un isolotto su cui camminare nelle giornate di bassa marea. Molto bassa. E’ un isolotto inquietante, un po’ come la Bretagna. Ma ha un qualcosa di rassicurante, forse perché famigliare.. Ah, dai fammi vedere una foto! Eccola! Guarda in alto..

Da bambino ho sempre associato il bicchiere di latte all’isolotto del Verdelet. Lo faccio tutt’ora. In francese vogliono dire la stessa cosa. Bicchiere di latte. Ah, è una specie di omonimia? Mah, forse.. Sta di fatto che oggi il bicchiere di latte me lo bevo la sera. Non ci sono più le piante di rabarbaro..

Continua a bere il tuo bicchiere di latte e fuma la tua pipa.

Ceci n’est pas le Verdelet. Ceci n’est pas un verre de lait.

Magritte – per una volta – non tradirà questa immagine.

La lumaca

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Steso sulla mia amaca dopo un pranzo copioso e innaffiato sento due bambini che giocano nel backyard adiacente al mio; fanno molto rumore nonostante sia domenica e nonostante le urla degli adulti provenienti da dentro casa. I bambini ce l’hanno con qualcuno o con qualcosa. Mi affaccio oltre i rami di bambù che delimitano il mio spazio e capisco che ce l’hanno con le lumache. Povere lumache.

Dalla prima alla quinta elementare sono andato a scuola in una via centrale del dodicesimo arrondissement. Rue Lamoricière. Paris. Abitavamo al sesto piano. Un boulevard. Papà ci faceva entrare nell’ascensore dopo aver mangiato i kellogg’s. C’erano già. Ci ritrovavamo al piano terra in pochissimi secondi. Giunti nel cortile io e mio fratello salutavamo la concièrge. Il digicode non era stato ancora inventato. Nell’ascensore, in quei pochissimi secondi, papà ci diceva sempre sorridete e non perderete mai. Il digicode arriverà anche a Roma, prima o poi.

Bonjour madame la concièrge! Bonjour les enfants! Con un sorriso bianco che illuminava l’inizio di giornata. Poi ci incamminavamo verso il cancello nero. All’altezza del calzolaio si girava a destra e prima di arrivare davanti all’école ci si fermava da madame la boulangère. Bonjour madame la boulangère! Bonjour les enfants. Est-ce qu’on pourrait avoir des bonbons, s’il vous plait? On va faire moit-moit, Tino et moi! I fratelli minori sono solitamente più spavaldi. Si abituano a lottare ben prima. Non sempre. Ma quasi. Les enfants, un chausson aux pommes ou un croissant. Ou un flan, à la limite. Mais pas de bonbons. Faites moitié-moitié. Cela sera meilleur pour votre santé et surtout pour vos caries!

Non sapevo se papà si metteva d’accordo con madame la boulangère. L’unica certezza è che uscivamo dalla boulangerie con un pacco pieno di enormi bonbons solo il sabato mattina, quando a scuola ci accompagnava la mamma perché aveva sempre la mattinata libera e papà non solo faceva orario continuato ma doveva andare a lavorare prima degli altri giorni. Forse era tutto pianificato e i bonbons si potevano mangiare solo il sabato mattina. Ma mi piaceva sorridere alle persone. Tutte le mattine.

Mi stendo nuovamente sull’amaca e vedo lumache volare letteralmente sopra la mia testa. Sto sognando.

Le venti circoscrizioni in cui sono divisi i dipartimenti di Parigi formano – a ben vedere – il guscio di una lumaca. Perché proprio una lumaca? Da bambino me lo chiedevo spesso. Ma non osavo chiedere. Chiedevo tante cose, come tutti i bambini, ma non chiedevo nulla della lumaca. La domenica si andava a trovare amici alle porte della città, quando non erano loro a venire da noi: papà tirava fuori il suo stradario; la topografia. Gli piaceva quella parola. Su quel libricino tascabile vedevo sempre la solita lumaca. Un pò più piccola del solito. Ma sempre una lumaca. Chiedevo altro. La domenica mattina si prendeva la nostra Citroën due cavalli. Verde. Décapotable. Appena entrati sul périphérique chiedevo sempre – girando nervosamente la testa a destra e sinistra e reggendomi con le mani ai due poggiatesta: papà, maman, perché quelle macchine sono davanti a noi? Perché non possiamo sorpassarle? Perché non andiamo più forte? Loro se sono lì vuol dire che vanno più forte di noi. No, mi sentivo rispondere. Sono entrati prima di noi sul périph’ e quindi si trovano semplicemente davanti a noi. Semplicemente. Allora mi rimettevo seduto e giocavo a forza quattro – tascabile – col fratellino. Sembriamo una famiglia di lumache! Questo non riuscivo a dirlo. Lo pensavo.

Le domande dei bambini hanno sempre un che di innocente e misterioso. La non corruzione infantile rousseauniana. Prima di diventare pre-romantici, i bambini fanno sempre strane domande. Mai banali. Sono gli adulti ad essere banali. Noiosi. Gli adulti non trovano quasi mai le risposte alle domande dei bambini. Perché sono corrotti. E Sempre arrabbiati. Uffa. Credo si dimenticano di essere stati bambini. Fanciulli. No, non tutti se lo dimenticano.

“È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi […] ma lagrime ancora e tripudi suoi”.

Anamenesi. Risveglio della memoria. Fedro. Il ricordo delle idee. Platone. Ben prima di Marcel. La madeleine. Il tempo perduto non si ricerca. Sembra sempre definitivamente perso. Irreversibilmente trasformato. Lontano. Distante. E perso. Ma la madeleine inzuppata nel tè… La maman de Marcel. Anzi. La zia Léonie. Combray. Swann. Vedere una madeleine su un tavolo non ti ricorda nulla. Vero? Appoggiare però un pezzo di madeleine inzuppata di tè sul palato.. Beh, questo ti ricorda qualcosa!

Sensazione sensazionale.

Anche nel diciannovesimo secolo esistevano le lumache. Il Barone Haussmann, noto politico nonché prefetto del periodo antecendente alla Parigi godereccia e spensierata della Belle Époque, non solo mangiava gli escargots ma aveva pensato bene di ovviare al problema delle lumache parigine.

Le lumache continuavano ad essere lente perché prive di spazio. Erano buone però. Lo sono tutt’ora. Il Baron pensò bene che bisognava allargare le strade. Si faceva prima ad andare a mangiare le lumache. Creare enormi boulevards. Questo era stato il suo progetto. Parigi non sarà mai più la stessa. Farò prima ad andare a mangiare gli escargots.

A un certo punto capisco per davvero che le lumache volano sopra la mia testa. Scendo dalla mia amaca e vado a dare nuovamente un’occhiata a quello che succede nel backyard adiacente al mio. I bambini prendono le lumache – alcune ancora vive – da una bottiglia di plastica tagliata a metà e leggermente interrata, piena di birra. Il colore è più scuro rispetto alla birra che ho bevuto a pranzo.

Le lumache sono ghiotte di birra. Non solo di foglie in piena notte. Il Barone mangiava tante lumache e beveva tanta birra. Ma non penso vedesse volare le lumache sopra la sua testa. Neanche dopo tante birre.

I bambini si contendono le lumache col guscio più piccolo perché fanno una gara: vediamo chi riesce a tirarle fino al parco pieno di alberi. Dai guarda, quello là.. lo vedi? Di là, dove ci sono gli alberi. Il parco pieno di alberi è adiacente al mio backyard, dall’altra parte delle lumache. Ecco perché scelgono i gusci più piccoli. Per lanciarli più in là. In realtà se fossero più grossi forse andrebbero ancor più in là. In ogni caso vedo volare le lumache sopra la mia testa. Non dico nulla, non oso. Ma avverto una strana sensazione.

Sensazionale.

Non è l’ora del tè e non c’è nessuna madeleine. Anamenesi.

Bonjour madame la boulangère! Est-ce qu’on pourrait avoir des bonbons, s’il vous plait?

Centottanta gradi

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Cammino per strada alla ricerca di angolazioni e triangolazioni. Angolazioni da fermare nel tempo con uno scatto, tese ad abbracciare le inquadrature desiderate; triangolazioni da trovare nello spazio per calcolare le distanze tra i punti cardinali di ieri e quelli di oggi. No, non ho paura di volare.

Ti raggiungerò.

La notte, quando stai per addormentarti, tutti gli episodi e le persone incontrate durante il giorno scorrono davanti ai tuoi occhi, come se ti trovassi davanti al finestrino di un treno, seduto in seconda classe. Le immagini scorrono, velocemente, non riesci a fermarle. Di prima mattina pensi invece di avere la testa abbastanza leggera e sgombra per immagazzinare tutto quello che succederà. Molti tendono a riposarsi dopo pranzo; la siesta, la sesta ora, la hora sexta, nasce probabilmente dalla necessità di memorizzare meglio quello che si vive al mattino. Spesso però, quando ti risvegli dal sonnellino, non sai più se è mattina o pomeriggio. Destabilizzante.

Cammino per strada in direzione del mio nine to five. Passo davanti al food market più in voga del momento, il posto dove ho conosciuto qualche tempo fa una persona venuta da lontano, una persona venuta dalla fine del mondo. Questo direbbe Papa Francesco.

La somma degli angoli di un triangolo, di un qualsiasi triangolo, è di centottanta gradi. Un goniometro. Tutti abbiamo avuto un goniometro nello zaino scolastico. Educazione tecnica. Un’arma bianca. Pensateci. Anche il flauto era un’arma bianca. Educazione musicale. Silenzio. Ora di italiano: scusi Prof, ma 180 in lettere si scrive centottanta o centoottanta? Il babbo ieri mi parlava di un qualcosa chiamato elisi.. Ma io conosco solo i Campi Elisi. Mi ci portava la mamma il sabato pomeriggio. Qualche tempo fa.

Centottanta gradi rappresentano l’esatta metà di un cerchio. Quello che non sono ancora riuscito a chiudere. Per farlo mi serve l’altra metà.

Ero uscito da casa di buon’ora. Il cielo era limpido e il sole cominciava a riscaldare la città e i suoi abitanti. Lei era atterrata il pomeriggio del giorno prima dopo aver attraversato l’oceano. In tempesta. Cosa vuoi che sia attraversare un oceano? Oggi prendere l’aereo è come prendere il treno. L’unica differenza è che si vola! Sì, è vero, ma l’oceano è grande.

Sì, l’oceano è immenso. Oceano mare: “…poi avvicina il pennello al volto della donna, esita un attimo, lo appoggia sulle labbra e lentamente lo fa scorrere da un angolo all’altro della bocca. Le setole si tingono di rosso carminio. Lui le guarda, le immerge appena nell’acqua, e rialza lo sguardo verso il mare. Sulle labbra della donna rimane l’ombra di un sapore che la costringe a pensare ‘acqua di mare, quest’uomo dipinge il mare con il mare’ – ed è un pensiero che dà i brividi.”

Chissà se anche io ero in grado di far scorrere il pennello sulle sue labbra. Anche io avevo i brividi ma non avevo paura di volare. Volevo solo trovare quell’altra metà del cerchio.

Lei aveva deciso di andare a trovarlo dopo un’infinità di ripensamenti. Sapeva benissimo cosa voleva dire entrare in quella casa, vivere i suoi ambienti e i suoi odori, dormire tutte quelle notti sotto quel tetto. Ma si era decisa; quel ragazzo conosciuto d’estate le aveva fatto provare sensazioni da tempo dimenticate. Dalle ultime ferite di amore erano passati anni. Forse lei aveva trovato l’altra metà del cerchio. Forse senza neppure cercarla.

Abito in pieno centro storico. No, non è colpa mia. La colpa è dei nonni che quarant’anni fa sono riusciti a comprare un appartamento molto grande. Soldi faticosamente accumulati sotto il materasso del letto matrimoniale. Un grande letto matrimoniale. Da grande ho capito che quell’appartamento non era così grande. Vivendoci, capisco perché gli occhi di un bambino sembrano sempre sproporzionati rispetto al resto del corpo. Quelli non crescono. Rimangono tali e quali. Come i metri quadrati condivisi con la donna venuta da lontano.

Uscito dall’ufficio quando la luce decide di abbandonare il giorno suono il campanello di casa; odio entrare in un luogo senza avvisare; anche se si tratta del mio luogo. Odio le persone che entrano nei miei luoghi senza essere avvisato. Apre e mi salta al collo. Come se ci conoscessimo da una vita e come se quello stesso istante dovesse durare per sempre.

“…venivano dai più lontani estremi della vita, questo è stupefacente, da pensare che mai si sarebbero sfiorati, se non attraversando da capo a piedi l’universo, e invece neanche si erano dovuti cercare, questo è incredibile, e tutto il difficile era stato solo riconoscersi, una cosa di un attimo, il primo sguardo e già lo sapevano, questo è meraviglioso.”

Sì, ci siamo riconosciuti. In realtà ci conoscevamo già. Senza che ce ne fossimo accorti, senza che ci fossimo cercati. No, non ho paura di volare. Ho solo bisogno di trovare l’altra metà del cerchio. Per chiuderlo.

A centottanta gradi l’acqua dell’Oceano può essere sia liquida che eariforme. Questo in teoria, dipende dalla pressione. In realtà a centottanta gradi l’acqua non esiste più.

No, non ho paura di volare. Ho solo bisogno di trovare la parte rovesciata del goniometro.

Basta girarlo.. Mantenendo ferma la base.

Unbirthday

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C’è una ricorrenza che cade ogni giorno dell’anno, il non compleanno. Durante i trecentosessantaquattro giorni di non compleanno si ricevono doni ingenetliaci. Più interessanti e graditi rispetto ad un unico dono genetliaco. No doubt. Grazie Lewis. Lapalissiano.

Che cosa hanno in comune un corvo ed uno scrittoio?

Nulla. Questo pensavo mentre contemplavo – indifferente – una coppia non più giovane che si scambiava effusioni in un ristorante. Seduti davanti ad una candela ed un paio di bicchieri di vino bianco, rigorosamente fermo. Come il Tempo. No, non era la perenne ora del tè e il Capellaio Matto, accusato giustamente di ammazzare il Tempo e non solo quello, continuava a guardare il suo orologio che segnava il giorno ed il mese. Non le ore.

Meglio così, almeno non le vedi passare.

Col pensiero li ho accompagnati fino alla macchina e mi sembrava di vederli camminare, fuori dal ristorante. Lui che giocava col mazzo di chiavi, fischiettando; lei che arrancava su quei trampoli di diciotto centimetri cercando di rincorrerlo a passi piccoli, impercettibili.

La loro velocità era diversa.

Strana era la maniera in cui lei fissava le altre donne del locale. Criticava la loro pettinatura, imprecava contro gli stivaloni troppo alti e pacchiani, sprezzava il loro trucco troppo pesante, cosciente della propria superiorità. Aspettava la sua insalata mista ammirando l’anello che le aveva appena regalato l’uomo della sua vita. Oggi era il suo compleanno – non c’era nessun non compleanno da festeggiare – e lui le aveva fatto il regalo genetliaco più bello del mondo. Le aveva chiesto di sposarlo. Ancora turbata si sistemava la spallina del nuovo abito costato un quarto di stipendio e sfiorava i lunghi riccioli biondi che le cadevano sulle spalle. Si sentiva bella, affascinante, attraente. Avvenente. Aveva una strana maniera di guardare le persone: inclinava leggermente la testa verso destra muovendo la bocca, sempre verso destra. Seduta, socchiudeva gli occhi e si toccava il labbro superiore con il pollice della mano destra reggendo una marlboro light tra l’indice e il medio. Dita raffinatissime sulle quali risaltava uno strano smalto nero.

Col pensiero li ho visti entrare in macchina. Abbracciati. Stereo altissimo.

Lui degustava lentamente il suo bicchiere e le parlava a voce bassa. Aveva prenotato la cena una settimana prima e si era fatto fare l’anello da un suo amico orafo; lo aveva pagato un terzo del suo prezzo. Anche lui guardava le donne che erano sedute agli altri tavoli ma con fare spontaneo, privo di sguardi diffidenti. Amava osservare qualsiasi donna. Amava le donne, in generale. Non rideva quasi mai e si limitava a sorridere. Ogni tanto prendeva la mano della donna bionda e le sussurrava qualche cosa all’orecchio inclinando il corpo in avanti, ben attento a non sporcarsi la camicia bianca. Lei si riversava improvvisamente all’indietro, sullo schienale della sedia, soffocando risate troppo acute.

Col pensiero li ho visti entrare nel monolocale della ragazza.

Si sdraiarono sul letto a due piazze e cominciarono a baciarsi mordicchiandosi le labbra. Lei si alzò, andò verso il mini bar e riempì due bicchieri ghiacciati con dell’ottima vodka polacca; lui si girò e infilò nello stereo un cd di musica classica tra i tanti che erano sparpagliati – senza custodia – sul tavolino.

Cosa hanno in comune un corvo ed uno scrittoio? Nulla. Questo pensavo mentre chiedevo il conto al cameriere.

Sdraiati e sudati ascoltavano le ultime note del disco. Lui si accese una sigaretta stringendo la testa della ragazza bionda sul proprio petto. Pensava al ristorante, alla cena, al monolocale. Pensava all’anello. Pensava al dono genetliaco. Spense la sigaretta a metà e si rivestì scrutando con la coda dell’occhio la donna che piangeva. Non disse nulla ma allacciandosi gli ultimi bottoni della camicia cominciò a sorridere. Un sorriso a labbra strette. Un sorriso che fece muovere la sua bocca. Verso destra.

Quando lui accese il motore della macchina guardò l’orologio. Il giorno ed il mese non erano indicati. Era solo tardi. Troppo tardi.

Quando lei smise di piangere andò dal Cappellaio Matto. Non riuscì a portare a termine un discorso sensato. Ma trovò la differenza tra un corvo ed uno scrittoio.

Il muro bianco

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Primo Maggio 2013

Oggi è un giorno di festa e non si lavora. Oggi è il giorno dei lavoratori. Forse farà festa anche chi non lavora. Ma solo per solidarietà.

Alle 6 in punto un filo di luce comincia a dar forma a tutto quello che mi circonda. Intravedo, a fatica, le fessure degli scuri e la luce che penetra attraverso la tenda rossa crea una strana alchimia cromatica. Chissà perché gli occhi – appena aperti – cercano sempre una finestra. Perché si avverte all’improvviso la necessità di una via di uscita, nel letto, appena ci si sveglia? Si vuole forse prendere la giusta distanza dal luogo in cui si ri-prende coscienza del proprio io? O forse si cerca la provenienza della luce per riparare gli occhi ancora gonfi e stropicciati? C’è il sole o ci sono le nuvole? Forse pioverà. Forse gli occhi si diriggono inconsapevolmente verso la finestra per un semplice bisogno di libertà. Anche e solo mentale. Tant’è che spesso, e neanche troppo paradossalmente, una volta svegli e una volta scrutata la finestra, ci si gira verso la persona che si ha al proprio fianco, nel letto, la persona che di solito si ama; è come se si volesse abbracciare la sicurezza che spiega perché non si apre subito quella finestra, perché non si vuole rompere l’equilibrio di un momento. Corto o lungo. Effimero o duraturo. Non ha importanza.

Prime luci del mattino. La memoria a breve termine ha immagazzinato le ultime fasi del sogno; sono state immediatamente trascritte sul quaderno nero moleskine, oggetto di indiscusso valore teso all’interpretazione dell’inconscio.

Un dedalo come tanti altri.

Mi sono girato e rigirato, ho anche provato a mettere la testa sotto il cuscino. Le prime ore del mattino sono sempre silenziose e soavi ma possono essere anche molto rumorose e caotiche. Mi sono alzato e ho spostato leggermente la tenda rossa, ho aperto la finestra che dà sul terrazzo e ho spalancato gli scuri. Al mattino si tende sempre ad aprire gli scuri della propria camera con una certa brutalità: troppo forte è la voglia di scappare dalle antropotossine appesantite dalla notte. Di sera, invece, si chiudono gli scuri in maniera vellutata, sulla punta dei piedi e senza far rumore, per non svegliare i demoni. Loro dormono già.

Una volta aperta la finestra non ho sentito nessun rumore di motore acceso vicino al bar. D’altra parte oggi è il giorno dei lavoratori e al lavoro ci si va in macchina. Ma prima si deve bere il caffè a casa… e poi al bar. Altrimenti che inizio di giornata è?

Tutte le mattine dovrebbero essere così. Sì, ma la festa dei lavoratori c’è solo una volta all’anno. Sempre per solidarietà.

Sul terrazzo ho guardato prima il cielo e poi la strada. In realtà, per prima cosa ho osservato la finestra della cucina della coppia che vive di fronte al mio palazzo. Saranno già in piedi? No, ovviamente. Troppo presto. Staranno giocando con Morfeo. O staranno giocando con Eros.

Neanche questo ha importanza.

E poi ho guardato i miei piedi, nudi. Dalì, il gatto di casa, si strusciava sulle mie caviglie formando una curva con la schiena. L’ho accarezzato e mi sono messo a camminare avanti ed indietro su quelle mattonelle, respirando l’aria fresca e leggera che a quell’ora ti pizzica il naso e ti ricorda alcune scampagnate mattutine da adolescente. All’epoca non capivo ancora la forza di quel pizzichìo. Camminavo e la respiravo quell’aria, priva di quella pesantezza tipica di fine giornata quando, dopo cena, ero solito camminare su quello stesso terrazzo accerchiato dal fragore e dal fetore umano.

Prima delle prime luci del mattino – e ben prima dell’alchimia cromatica – ho chiuso il quaderno nero moleskine, ho rimesso la penna sul comò, vicino alla lampada. L’ho spenta. Nel letto mi sono girato verso la parete. Priva di finestra.

Un muro bianco…